martedì 23 dicembre 2014

La strada del mare

Almeno 3.419 persone vi hanno perso la vita. Donne, uomini e bambini che fuggono dagli schermi televisivi. Evadono le cronache invisibili dei conflitti armati. Rischiano l'altrove nel mare. E' questa la  strada più mortale del mondo. 
Fanno 3.419 da gennaio fino a natale che si allontana come può. Speriamo che l'anno finisca prima. Per qualche giorno si fermerà il conteggio. Il rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati la chiama così. Una strada che oltre duecentomila persone hanno percorso quest’anno.
La strada del mare è anticipata da quella del deserto. Camion, fuoristrada, ostelli precari e pozzi d’acqua ormai seccati. Si incontrano a gruppi o abbandonati al loro destino dai trafficanti. Mancano agli appelli e le sepolture sono accidentali. Il Sahel è l’altra strada dei viandanti. Se non sai dove andare almeno puoi dire da dove vieni. Bel proverbio, dicono, solo che ha smesso di funzionare da tempo...
In Israele la terra è promessa fino a un certo punto e non per tutti. A centinaia i migranti sono stati espulsi, deportati e sfruttati. Diverse migliaia sono detenuti senza poter presentare nessuna domanda d’asilo. C’era una volta l’ospitalità. Il ricordo non cancellato di antiche erranze. Nostro padre era un arameo. L’Egitto è tornato in Israele per traversare il mare dei giunchi. I perseguitati di allora sono adesso aguzzini. La Palestina è una cavia da laboratorio. Lo chiamano controllo globale che in quella zona fa prove di orchestra. Un braccio di mare li separa dall’Europa dei diritti affossati nel nulla. Sudanesi e Eritrei che della regina di Saba e del suo oro erano i portatori. Stranieri si diventa a seconda delle circostanze e dei confini creati dalla politica. La strada di mare porta fino a Gaza dove è difficile pescare come prima. Non oltre i cinque kilometri a causa del blocco marittimo. Dio vide che quanto aveva fatto era molto buono. Da allora non smette di rimediare a suo modo.
Anche quest’anno il 18 dicembre si celebra la giornata mondiale delle migrazioni. Il diritto a partire e quello a rimanere non sono uguali. Viaggiano bene le mercanzie e non parliamo dei capitali. Le armi poi si spostano in prima classe senza prenotazione. Gli umani sono controllati a seconda della carta di credito. Viaggiano scortati dalla paura di non farcela neppure stavolta. 
La strada del mare è solcata da petroliere e da navi containers sempre più capienti. Gli equipaggi sono come zavorra scambiabile in cambio di più docili ostaggi. I migranti sono oltre 240 milioni e la maggior parte transita dal Sud del mondo. Ciò che li divide dall’altro mondo è giusto un braccio di mare. Quello che hanno passato eritrei e siriani che fuggono la guerra. 
E allora prendono la strada del mare.

Mauro Armanino, missionario a Niamey, Niger
Dicembre 2014 

sabato 15 novembre 2014

NON LASCIAMOLI SOLI

Lettera degli utenti rifugiati del centro SPRAR di Tor Sapienza:

"Tutti parlano di noi in questi giorni, siamo sotto i
riflettori: televisioni, telegiornali, stampa. Ma nessuno
veramente ci conosce.  Noi siamo un gruppo di rifugiati,3 5
persone provenienti da diversi Paesi: Pakistan, Mali,
Etiopia, Eritrea, Afghanistan, Mauritania, ecc...Non siamo
tutti uguali, ognuno ha la sua storia; ci sono padri di
famiglia, giovani ragazzi, laureati, artigiani, insegnanti,
ecc..ma tutti noi siamo arrivati in Italia per salvare le
nostre vite. Abbiamo conosciuto la guerra, la prigione, il
conflitto in Libia, i talebani in Afghanistan e in Pakistan.
Abbiamo viaggiato, tanto, con ogni mezzo di fortuna, a volte
con le nostre stesse gambe; abbiamo lasciato le nostre
famiglie, i nostri figli, le nostre mogli, i nostri genitori
, i nostri amici, il lavoro, la casa, tutto. Non siamo
venuti per fare male a nessuno. In questi giorni abbiamo
sentito dire molte cose su di noi: che rubiamo, che
stupriamo le donne, che siamo incivili, che alimentiamo il
degrado del quartiere dove viviamo. Queste parole ci fanno
male, non siamo venuti in Italia per creare problemi, né
tantomeno per scontrarci con gli italiani. A questi ultimi
siamo veramente grati, tutti noi ricordiamo e mai ci
scorderemo quando siamo stati soccorsi in mare dalle
autorità italiane, quando abbiamo rischiato la nostra
stessa vita in cerca di un posto sicuro e libero. Siamo qui per
costruire una nuova vita, insieme agli italiani, immaginare
con loro quali sono le possibilità per affrontare i
problemi della città uniti insieme e non divisi.  È da tre giorni
che viviamo nel panico, bersagliati e sotto attacco: abbiamo
ricevuto insulti, minacce, bombe carta. Siamo tornati da
scuola e ci siamo sentiti dire “negri di merda”; non
capiamo onestamente cosa abbiamo fatto per meritarci tutto ciò.
Anche noi viviamo i problemi del quartiere, esattamente come
gli italiani; ma ora non possiamo dormire, non viviamo più
in pace, abbiamo paura per la nostra vita. Non possiamo
tornare nei nostri Paesi, dove rischiamo la vita, e così
non siamo messi in grado nemmeno di pensare al nostro futuro.
Vogliamo dire no alla strada senza uscita a cui porta il
razzismo, vogliamo parlare con la gente, confrontarci.
Sappiamo bene, perché lo abbiamo vissuto sulla nostra
stessa pelle nei nostri Paesi, che la violenza genera solo altra
violenza. Vogliamo anche sapere chi è che ha la
responsabilità di difenderci? Il Comune di Roma, le
autorità italiane, cosa stanno facendo? Speriamo che la polizia
arresti e identifichi chi ci tira le bombe. Se qualcuno di
noi dovesse morire, chi sarebbe il responsabile? Non
vogliamo continuare con la divisione tra italiani e
stranieri. Pensiamo che gli atti violenti di questi giorni
siano un attacco non a noi, ma alla comunità intera. Se il
centro dove viviamo dovesse chiudere, non sarebbe un danno
solo per noi, ma per l’intero senso di civiltà
dell’Italia, per i diritti di tutti di poter vivere in sicurezza ed in
libertà. Il quartiere è di tutti e vogliamo vivere
realmente in pace con gli abitanti. Per questo motivo non vorremmo
andarcene e restare tutti uniti perché da quando viviamo
qui ci sentiamo come una grande famiglia che nessuno di noi
vuole più perdere, dopo aver perso già tutto quello che
avevamo."


Lettera di Alessia, che
lavora allo SPRAR di Tor Sapienza:

Chiedo a tutti di far girare, immagino sappiate la
situazione del centro Morandi di Tor Sapienza dove lavoro
come coordinatrice sprar, anche se dai media sembra che si
senta solo una voce. La nostra preoccupazione come staff è
per gli utenti, ricordiamoci che parliamo di richiedenti
asilo e rifugiati politici e di minori in tutela. Purtroppo
sia giornali che telegiornali hanno fatto uscire volti non
oscurati e questo li mette ancora più in pericolo.
Questo è il modo per far sentire la loro voce. Vi posso dire
che siamo esausti tutti, questa mattina i minori sono tornati
autonomamente da dove erano stati spostati con la richiesta
di tornare qui. Purtroppo non possono entrare, ora sono al
comune per far ascoltare le loro richieste. Noi siamo
transennati, sta arrivando Borghezio con casapound. Dalla
mia parte io vorrei solo fare il mio lavoro e credetemi in
questo momento è difficile. La tensione è
altissima, siamo minacciati, non possiamo uscire, E' pericoloso entrare,
salti mortali per far arrivare i pasti, appuntamenti
ospedalieri rinviati. Che sia chiaro che gli utenti stanno
facendo da capro espiatorio per una guerra che non è la
loro, dalla loro sono già scappati. Scusate, ma non ce
la faccio veramente più.
Alessia Armini

giovedì 13 novembre 2014

Respingimenti: Italia condannata per la seconda volta. L’appello delle associazioni.

http://www.cronachediordinariorazzismo.org/respingimenti-italia-condannata-per-seconda-volta-lappello-delle-associazioni/

Respingimenti: Italia condannata per la seconda volta. L’appello delle associazioni.

POLICE-LOOK-OUT-TO-SEA-AT-006La Corte Europea per i diritti dell’uomo (Cedu) ha nuovamente condannato l’Italia per aver messo in atto respingimenti collettivi. Già il 23 febbraio 2010, con la cosiddetta “sentenza Hirsi”, la Corte di Strasburgo condannava l’Italia per aver respinto in Libia circa duecento persone, violando l’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani -trattamenti degradanti e tortura-, l’articolo 4 del Protocollo 4 -interdizione di espulsioni collettive- e l’articolo 13 -impossibilità di ricorso- (vedi qui per approfondimenti).
A distanza di due anni arriva una nuova, identica condanna. La sentenza, datata 21 ottobre 2014, riguarda quello che è conosciuto come il “caso Sharifi e altri contro Italia e Grecia” (Per una ricostruzione dettagliata si rimanda all’articolo di Alessandra Sciurba pubblicato su Melting Pot). Le violazioni per cui l’Italia è stata condannata si riferiscono, ancora una volta, agli art. 3, 13 e 4 Protocollo 4.
Nonostante le varie pronunce della Corte, però, i respingimenti proseguono. “E’ infatti notizia del 29 ottobre 2014 che al porto di Ancona le forze dell’ordine abbiano respinto in Grecia 16 persone di cittadinanza iraniana, siriana e irachena imbarcatisi su un traghetto della Minoan, nascosti tra le ruote dei Tir o in mezzo al carico. Solo cinque scoperti nella stessa occasione sono stati ammessi alla procedura di asilo”, denunciano le associazioni Terre des Hommes International Federation, Medici Senza Frontiere Italia e Asgi, che insieme alla campagna LasciateCIEntrare lanciano un appello alle istituzioni italiane ed europee. E’ infatti frequente l’applicazione di quelle che le associazioni chiamano “modalità semplificate” per le procedure di respingimento, attuate sulla base di accordi bilaterali tra stati: prassi “di respingimento collettivo che privano i migranti dei più elementari diritti di difesa e di informazione, in quanto, al di là della stessa possibilità di formalizzare una richiesta di asilo”, alle persone viene tolta “la possibilità di fare valere qualsiasi altra causa ostativa rispetto al respingimento immediato”, effettuato verso paesi terzi non sicuri come la Libia, l’Egitto, la Turchia, la Grecia. Una situazione a cui le associazioni chiedono di porre fine, “in ottemperanza a quanto sancito dalla Cedu, nonché dalla convenzioni internazionali e direttive europee in tema di Protezione internazionale e diritto all’Asilo”.
Segnaliamo l’appello, invitando alla diffusione.
Roma, 7 Novembre 2014
Al Gentile Presidente del Consiglio, Matteo Renzi
Al Gentile Ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni
Al Gentile Ministro dell’Interno, Angelino Alfano
Al Gentile Alto Commissario PESC della UE, Federica Mogherini
APPELLO, FERMINO I RESPINGIMENTI
Come certamente saprete la Corte Europea per i diritti dell’uomo ha nuovamente condannato il Governo Italiano per i respingimenti collettivi (decisione Sharifi contro Italia e Grecia del 21.10.2014) per la violazione dell’art. 13 Cedu (diritto a un ricorso effettivo) combinato con l’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) “perché le autorità italiane hanno esposto i ricorrenti, rimandandoli in Grecia, ai rischi conseguenti alle falle della procedura di asilo in quel paese” e per violazione dell’art. 4, Protocollo 4 (divieto di espulsioni collettive).
La Cedu, si legge nel comunicato stampa immediatamente successivo alla sentenza, “condivide la preoccupazione di diversi osservatori rispetto ai respingimenti automatici attuati dalle autorità frontaliere italiane nei porti dell’Adriatico, di persone che sono il più delle volte consegnate immediatamente ai comandanti dei traghetti per essere ricondotte in Grecia, essendo in tal modo private di ogni diritto procedurale e materiale”.
Le nostre organizzazioni condividono le considerazioni e le preoccupazioni della Corte Europea dei diritti dell’Uomo. “E’ infatti notizia del 29 ottobre 2014 che al porto di Ancona le forze dell’ordine abbiano respinto in Grecia 16 persone di cittadinanza iraniana, siriana e irachena imbarcatisi su un traghetto della Minoan, nascosti tra le ruote dei Tir o in mezzo al carico. Solo cinque scoperti nella stessa occasione sono stati ammessi alla procedura di asilo”.
Notizie di questi giorni, lanciata da RTM, parlano di un respingimento di circa 50 egiziani giunti a Pozzallo in un’imbarcazione con a bordo 329 persone partite dall’Egitto nove giorni prima.
Questi respingimenti non si collocano certo nell’ambito di applicazione del regolamento Dublino perché nessuno dei respinti ha potuto o voluto formalizzare una richiesta di asilo. Si è data applicazione ancora una volta da una parte all’Accordo tra Italia e Grecia del 1999 che prevede modalità “semplificate” per le procedure di respingimento verso la Grecia senza nessuna delle garanzie che comunque il regolamento frontiere prevede in favore di qualunque migrante faccia ingresso nel territorio di uno stato appartenente all’area Schengen e dall’altra gli accordi bilaterali di riammissione tra Italia ed Egitto.  Paese che non può comunque essere definito un “paese terzo sicuro”, come risulta dai rapporti internazionali delle principali agenzie umanitarie che il nostro governo e la comunità internazionale non può ignorare.
Queste procedure semplificate di respingimento collettivo, privano i migranti dei più elementari diritti di difesa e di informazione, in quanto, al di là della stessa possibilità di formalizzare una richiesta di asilo, priva le persone della possibilità di fare valere qualsiasi altra causa ostativa rispetto al respingimento immediato e si pone in totale contrapposizione con le disposizioni europee e con la giurisprudenza della Cedu.
Per tali ragioni le nostre organizzazioni, consapevoli che le suddette pratiche collettive e sommarie di respingimento verso Paesi certamente non sicuri, quali, oltre la Grecia, per effetto di possibili respingimenti a catena, la Libia, l’Egitto e la Turchia, lungi dall’essere state inibite rischiano di moltiplicarsi anche quale conseguenza del termine dell’operazione Mare Nostrum, che potrebbe comportare un maggiore afflusso di potenziali richiedenti asilo o comunque di migranti irregolari, alle frontiere portuali ed aeroportuali, chiedono al  Governo Italiano l’impegno di far cessare immediatamente qualsiasi procedura di respingimento di migranti, in ottemperanza a quanto sancito dalla Cedu, nonchè dalla convenzioni  internazionali e direttive europee in tema di Protezione internazionale e diritto all’Asilo.
Vi chiediamo altresì di imporre il rispetto del suddetto divieto di espulsione o respingimento collettivi anche in applicazione del Regolamento frontiere Schengen 562 del 2006, il quale, invece, deve essere interpretato e applicato in conformità alla CEDU, con l’esame individuale di ogni persona, anche agli altri Stati membri e ciò in forza del ruolo dell’Italia in questo semestre di Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea.
Raffaele K. Salinari, Presidente Terre des Hommes International Federation
Loris De Filippi, Presidente Medici Senza Frontiere Italia
Lorenzo Trucco, Presidente Asgi – Associazione Studi Giuridici Immigrazione
Gabriella Guido, Portavoce Campagna LasciateCIEntrare

mercoledì 5 novembre 2014

I 64 anni della Convenzione europea dei diritti umani

da unimondo


Una breve ricerca web su “Corte europea” AND “Italia” ci restituisce solo per gli ultimi 2 mesi una tale mole di risultati che di tutto si potrebbe accusare il Tribunale fuorché di essere inoperoso. Alcuni esempi?
Mediaset, Corte Europea esaminerà uno dei ricorsi di Berlusconi”.
La prima coppia sposata all’estero: ‘La Corte Europea ci darà ragione’”.
Espulsione profughi, Strasburgo condanna Roma”.
Rifiuti, la Corte europea condanna l’Italia persette discariche del Lazio”.
“Tasse sì, tasse no, Corte europea condanna l’Italia sul gioco d’azzardo”.
Condanne, ricorsi, richiami ufficiali e sanzioni: questi sono solo alcuni dei mezzi a disposizione della Corte Europea dei Diritti Umani per far sentire la propria voce. Una voce espressa da Strasburgo, ragione del conio del riferimento alla Corte quale Tribunale di Strasburgo. Eppure non fu lì che tutto ebbe inizio.
Questa storia nasce a Roma, il 4 novembre 1950, esattamente 64 anni fa. È un sabato e Palazzo Barberini ospita un consesso di indubbia rilevanza politica. I capi di Stato e di governo dei 10 membri fondatori del Consiglio d’Europa, costituito a Londra poco più di un anno prima, il 5 maggio 1949, si riuniscono in quella splendida cornice per la firma della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Un nome solenne quanto le disposizioni che essa racchiude, e che intendevano trasporre i principi proclamati dallaDichiarazione universale dei diritti umani dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) del 10 dicembre 1948 in norme giuridiche vincolanti per gli Stati. L’importanza del sistema delineato dal Consiglio d’Europa non stava dunque tanto nella perfezione del catalogo dei diritti protetti, quanto piuttosto nell’originalità e nell’incisività delle procedure di controllo. È proprio da questa “mission” che scaturì la volontà di creare un Tribunale che giudicasse le violazioni dei diritti umani commessi dagli Stati europei contraenti; l’istituzione avrebbe visto finalmente la luce alcuni anni dopo, nel 1959.
La storia della creazione del Consiglio di Europa è connessa strettamente a quella Convenzione sui diritti umani elaborata appena un anno dopo la sua nascita. Il tentativo di ricostruire il continente europeo dopo la devastazione della seconda guerra mondiale non doveva essere solo materiale ma intendeva soprattutto testimoniare e valorizzare lacomune concezione ideale insita nella “democrazia”, nei “diritti umani” e nella “dignità dell’essere umano”. Se la culla di tali principi era stata proprio l’Europa, da essa doveva giungere la ferma volontà di metterli in pratica e di farne il fondamento dell’idea europeista. Logico quindi che la prima grande realizzazione del Consiglio concernesse i diritti umani.
Il 10 agosto scorso l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha celebrato i 65 anni dalla sua prima sessione: un bel traguardo per un’istituzione che oggi vanta ben47 membri, di cui 28 Stati appartenenti all’Unione Europea, e diversi Paesi osservatori. Tutti e 47 gli Stati membri hanno ratificato la Convenzione europea dei diritti umani e accettato la giurisdizione della Corte, consentendo alla stessa di emettere in questi anni più di 10mila sentenze giuridicamente vincolanti. Le più note aventi come oggetto l’Italia sono connesse, come risaputo, alla situazione carceraria del Belpaese in violazione dell’art. 3 della CEDU che proibisce la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. A questo proposito è recente la notizia che il Tribunale di Strasburgo ha iniziato a respingere i ricorsi (19 in tutto) di detenuti nelle carceri italiane facendo riferimento al recente decreto 92/2014 adottato dal parlamento che dovrebbero migliorare la condizione di sovraffollamento carcerario.
Già è stata invece definita storica la sentenza sul caso Sharifi et alii contro Italia e Grecia con cui la Corte Europea dei Diritti Umani condanna la consueta prassi di “respingere” ogni giorno cittadini di Paesi terzi che arrivano in Italia nei porti dell’Adriatico nascosti su traghetti provenienti dai porti greci. Il carattere indiscriminato dei respingimenti, il mancato accesso alle procedure per la richiesta di asilo e tantomeno della possibilità di ricorso contro la misura di allontanamento sono al centro della decisione della Corte, in linea con la precedente sentenza Hirsi Jamaa et alii v. Italia, riguardo i respingimenti del 2009 verso la Libia. In entrambi i casi il pericolo concreto di tortura e maltrattamenti in cui sono molto probabilmente incorse le persone respinte tanto verso l’Afghanistan quanto verso la Libia avrebbe dovuto indurre Italia e Grecia ad attuare tutte le misure di identificazione dei richiedenti lo status di rifugiato.
Che si tratti di libertà di culto (si veda la sentenza che ha avuto ampia risonanza sull’affissione del crocifisso nei luoghi pubblici, come scuola o tribunali), di diritto a un giusto processo (il ricorso di Silvio Berlusconi sulla sentenza Mediaset non è che uno dei più clamorosi sinora effettuati) connesso peraltro spesso alla lentezza del processo che si tramuta in assenza di giustizia, di libertà di espressione, di diritto a sposarsi, di protezione di proprietà, una cosa è certa. L’Italia, come molti altri Paesi europei, non è esente dal commettere violazioni, anche gravi, delle disposizioni della Convenzione europea dei diritti umani. Un documento al quale è legata la storia recente del continente stesso e che, non solo a parole, va osservato nel rispetto e nella salvaguardia di quei diritti e libertà fondamentali in cui l’Europa unita affonda le sue radici.

mercoledì 22 ottobre 2014

Caso Sharifi et al. v. Italia e Grecia - La Corte di Strasburgo condanna l’Italia. Un ricorso costruito dal basso ferma i respingimenti dai porti dell’Adriatico

da Melting pot: http://www.meltingpot.org/Caso-Sharifi-et-al-v-Italia-e-Grecia-La-Corte-di-Strasburgo.html#.VEiknGd_u2Y Caso Sharifi et al. v. Italia e Grecia - La Corte di Strasburgo condanna l’Italia. Un ricorso costruito dal basso ferma i respingimenti dai porti dell’Adriatico Fu un trattamento disumano e degradante, violato il divieto di espulsioni colelttive ed il diritto ad un ricorso effettivo Autore: Alessandra Sciurba Tutto comincia con la morte di Zaher Rezai, in Via Orlanda a Mestre, l’11 dicembre del 2008. Un ragazzino afghano che, dopo mesi di viaggio e 9000 chilometri percorsi da solo, si era imbarcato dal porto di Patrasso, nascosto sotto un tir come migliaia di altri minori, per fuggire dalle violenze della Grecia: un paese già condannato dalla Cedu per trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei migranti e dove è impossibile chiedere protezione internazionale. Ma neanche una volta arrivato in Italia Zaher aveva potuto palesarsi, perché sapeva che dal porto di Venezia, come da quelli di Ancona, Bari e Brindisi, si viene rimandati indietro, dentro cabine di ferro senza acqua né cibo, rimessi in mano alla polizia greca e poi rispediti in Turchia e da lì, ancora una volta, nell’orrore afghano. Allora Zaher è rimasto nascosto finché il camion non è uscito dalla nave, finché non ha iniziato ad allontanarsi dal porto, le piccole mani strette ad aggrapparsi sotto la pancia del tir: non ce la fa, scivola, viene travolto. Nelle sue tasche quattro animaletti di gomma e alcune bellissime poesie: giardiniere, apri le porte del giardino, io non sono un ladro di fiori. Le associazioni veneziane della Rete Tutti i diritti umani per tutti sapevano già da tanti racconti quello che avveniva ai porti. Lo sapeva anche l’Ambasciata dei Diritti di Ancona che si unisce, anch’essa inascoltata da tutte le istituzioni, alle denunce. Il 19 dicembre del 2008 le associazioni veneziane scrivono una lettera aperta a tutti gli enti chiamati a gestire il servizio di accoglienza al porto di Venezia chiedendo di rifiutare ogni incarico senza prima avere rinegoziato i criteri minimi per garantire la tutela dei profughi. Il Cir decide di accettare comunque e gestisce per anni la sua presenza al porto di Venezia, ( ma dopo poco inizia a denunciare anche pubblicamente le troppe ombre con cui è costretto a convivere). Il sangue di Zaher però, su quella strada di Mestre, spinge a fare qualcosa di diverso. Partire, andare a ritroso sulle tracce dei respinti, trovarli, dare loro voce. Perché i ricorsi alla Cedu funzionano così: deve essere la vittima a fare appello, servono delle procure firmate. In pochi, allora, partiamo con in testa l’idea di permettere ai respinti di ricorrere alla Corte europea di Strasburgo, con me anche Anna Milani e Basir Ahang, rifugiato politico e giornalista afghano. È il 2009, arriviamo a Patrasso dopo 37 ore di viaggio in nave. Aiutati da Kinisi, un’associazione di attivisti del luogo incontriamo subito migliaia di afghani relegati in un campo informale ai margini della città che sarà dato alle fiamme dalla polizia pochi mesi dopo. Ci sono anche dei sudanesi e degli eritrei che hanno scelto la strada dell’Est per sfuggire alle torture libiche e al cimitero del Mediterraneo. Ma muoversi a Patrasso è difficile, siamo seguiti a vista dalla polizia greca, fermati per ore con l’assurda accusa di traffico internazionale di stupefacenti solo perché parlavamo coi migranti, e poi lasciati andare grazie all’intervento della rete di avvocati greci che avevamo preventivamente contattato per autenticare le firme che avremmo raccolto. Ci rifugiamo nel campo e ci restiamo per giorni. Spieghiamo ai profughi cosa siamo andati a fare, dopo poco si fidano di noi. Piove per tutto il tempo in cui restiamo lì, ma fuori dalla capanna di legno e cellofan costruita dai migranti e in cui ci ospitano per raccogliere le storie e le procure, c’è una fila di centinaia di persone. Ne raccogliamo molte, di storie, ma solo 35 sono complete della documentazione necessaria. Torniamo in Italia con il nostro carico di speranza. Rifacciamo il viaggio da patrasso a Venezia. Nei garage osserviamo gli autisti guardare freneticamente, prima dello sbarco, sotto e dentro i loro mezzi per accertarsi di non avere a bordo “clandestini”. Al porto vediamo la polizia portare i tir in apposite zone coperte per controllarli, usano sofisticate apparecchiature per passarli ai raggi, incuranti del fatto che questi sistemi, se davvero ci fossero delle percorse nascoste, causerebbero loro gravi danni alla salute. Una volta a casa coinvolgiamo le persone giuste: il Prof. Fulvio Vassallo Paleologo e l’avvocata Alessandra Ballerini di Genova. Con loro e con l’Avvocato Luca Mandro di Venezia , dell’Associazione Tutti i diritti umani per tutti, viene costruito il ricorso, e poi inviato a Strasburgo. Da quel momento inizia l’attesa. Un’attesa lunga anni in cui la caparbietà dell’avvocata Ballerini ha avuto qualcosa di epico. Presa Diretta nel frattempo decide di dedicare a questi respingimenti una puntata , Gian Antonio Stella scrive un editoriale sul corriere della Sera, in prima pagina. Ma se i media finalmente ci ascoltano, le autorità governative rimangono sorde. A Venezia chiediamo incontri con l’autorità portuale, la prefettura, la polizia di frontiera, ma nessuno ammette l’illegalità delle pratiche di respingimento. Nonostante l’Acnur, da anni, raccomandasse di non rimandare i migranti verso la Grecia, nonostante anche alcuni assessori del Comune di Venezia come Gianfranco Bettin e Sandro Simionato, consiglieri comunali come Beppe Caccia, e l’allora sindaco della città Massimo Cacciari avessero pubblicamente preso posizione in nostro favore. Chi gestisce i respingimenti, allora sotto gli ordini del Ministro degli interni del tempo, il leghista Roberto Maroni già autore dei respingimenti verso la Libia anch’essi condannati dalla Cedu, continua a dire che ogni cosa avviene in regola: esiste infatti un protocollo tra Italia e Grecia risalente al 1999 che prevede i respingimenti con affido al comandante. Peccato che, come abbiamo sempre denunciato, quel protocollo, essendo in aperta violazione con gran parte della normativa Ue e internazionale sui diritti umani e le frontiere, non possa essere applicato, sia totalmente illegale. E poi, nell’aprile del 2009, arriva la prima risposta: nonostante i governi italiano e greco avessero chiesto alla Corte di Strasburgo di considerare inammissibile il ricorso per dubbi sull’identità dei ricorrenti, la Cedu lo accoglie. Un primo straordinario risultato per un intervento interamente costruito dal basso, senza grandi enti o associazioni alle spalle. Solo la voglia di credere che davanti a una violenza così a lungo perpetrata non si può restare immobili, e che anche contro i poteri più forti, contro l’omertà, contro chi nega l’evidenza, si deve osare. E oggi abbiamo vinto. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo condanna l’Italia e la Grecia per la violazione di alcuni diritti fondamentali di 4 dei 35 ricorrenti di cui, tanti anni fa, abbiamo raccolto le storie e le procure a Patrasso. Gli altri, in questi anni sono stati rimandati in luoghi dove è difficile che siano sopravvissuti, nonostante la Corte avesse intimato alla Grecia, ex art. 39 Cedu, di sospendere contro di loro ogni espulsione. La sentenza del 21 ottobre condanna quindi la Grecia per violazione dell’art. 13 Cedu (diritto a un ricorso effettivo) combinato con l’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e l’Italia per violazione dell’art. 4, Protocollo 4 (divieto di espulsioni collettive), nonché per violazione dell’art. 3, “perché le autorità italiane hanno esposto i ricorrenti, rimandandoli in Grecia, ai rischi conseguenti alle falle della procedura di asilo in quel paese”. L’Italia è stata inoltre condannata per la violazione dell’art. 13 combinato con l’art. 3 e con l’art. 4 del Protocollo 4 per l’assenza di procedure d’asilo o di altre vie di ricorso nei porti dell’Adriatico. La Corte, si legge ancora nel suo comunicato stampa immediatamente successivo alla sentenza, “condivide la preoccupazione di diversi osservatori rispetto ai respingimenti automatici attuati dalle autorità frontaliere italiane nei porti dell’Adriatico, di persone che sono il più delle volte consegnate immediatamente ai comandanti dei traghetti per essere ricondotte in Grecia, essendo in tal modo private di ogni diritto procedurale e materiale”. Da domani, questi respingimenti devono essere sospesi, perché dopo anni di denunce, dopo tutti i nostri viaggi in Grecia, dopo manifestazioni e commemorazioni, quelle che abbiamo sempre condannato come violazioni dei diritti fondamentali hanno avuto un riconoscimento ufficiale da cui nessuna autorità italiana potrà più prescindere. Ogni battaglia ha avuto un senso, finalmente. Lo ha avuto la Campagna Welcome. Indietro non si torna, che il 20 giugno del 2010 ha lanciato una manifestazione internazionale tra i porti italiani e quelli greci contro i respingimenti. Hanno avuto senso tutte le denunce di questi anni, anche recentissime, i dossier e i libri pubblicati, gli incontri pubblici con centinaia di persone, le incursioni di tanti attivisti nei porti, salutate dalla polizia di frontiera con cariche, violenze e denunce. Ha avuto senso la costituzione di un Osservatorio antidiscriminazioni razziali a Venezia, fondato dall’Associaizone SOS Diritti insieme all’Unar e al Comune che ha chiesto e ottenuto i dati dei respingimenti al porto. Non hanno avuto senso, quelle no, le tantissime morti di tutti quei migranti che stavano esercitando un diritto e sono stati uccisi, come Zaher, dalla frontiera italiana dell’Adriatico . Questa piccola enorme vittoria è per tutti loro.

martedì 30 settembre 2014

AMNESTY INTERNATIONAL: UN ANNO DOPO I NAUFRAGI DI LAMPEDUSA, IL NUMERO DI VITE PERSE IN MARE AUMENTA MENTRE L’EUROPA GUARDA DALL’ALTRA PARTE


Un anno dopo i naufragi al largo di Lampedusa, in cui annegarono oltre 500 persone, un nuovo rapporto di Amnesty International mette in luce come la vergognosa mancanza d’azione dei paesi dell’Unione europea abbia contribuito all’aumento delle morti nel mar Mediterraneo, dove migliaia di migranti e rifugiati hanno perso la vita nel tentativo disperato di raggiungere le coste europee. 

Il rapporto di Amnesty International, intitolato “Vite alla deriva: rifugiati e migranti in pericolo nel Mediterraneo centrale”, descrive le conclusioni delle recenti visite effettuate dall’organizzazione per i diritti umani a Malta e in Italia, compresa una ricerca svolta a bordo di una nave della Marina militare italiana. Attraverso interviste a persone sopravvissute ai naufragi e colloqui con esperti e autorità, il rapporto evidenzia i pericoli cui vanno incontro le persone in fuga da guerra, persecuzione e povertà e la penosa risposta della maggior parte degli stati dell’Unione europea. 

“Mentre l’Unione europea erige muri sempre più alti, i rifugiati e i migranti attraversano il Mediterraneo nel disperato tentativo di raggiungere le coste europee. Stipati su imbarcazioni insicure da scafisti senza scrupoli, ogni settimana centinaia di loro ondeggiano tra la vita e la morte, tra la speranza e la disperazione” – ha dichiarato John Dalhuisen, direttore del programma Europa e Asia centrale di Amnesty International. 

“Dall’inizio dell’anno, oltre 2500 persone partite dall’Africa del Nord sono annegate o disperse nel Mediterraneo. L’Europa non può ignorare la tragedia che si sta compiendo alle sue porte. Un numero maggiore di navi per la ricerca e il soccorso nel Mediterraneo centrale, col chiaro compito di salvare vite umane in acque internazionali e risorse adeguate per svolgerlo al meglio: ecco cosa l’Unione europea e i suoi stati membri devono fornire con urgenza” – ha aggiunto Dalhuisen. 

I conflitti e la persecuzione nel Medio Oriente e in Africa, le privazioni di carattere economico e la chiusura delle frontiere terrestri nell’Europa sud-orientale spingono persone disperate a intraprendere il viaggio in mare. 

Nel 2014, oltre 130.000 rifugiati e migranti hanno attraversato la frontiera meridionale europea via mare. Quasi tutti sono stati soccorsi dalla Marina italiana. La maggior parte di essi era salpata dalla Libia, un paese tormentato dalla guerra. 

Il rapporto di Amnesty International identifica una serie di carenze strutturali nel sistema di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale e chiede che vi siano più percorsi sicuri e legali verso l’Europa a disposizione di chi fugge dai conflitti e dalla persecuzione. Questo può essere fatto attraverso il reinsediamento, i programmi di ammissione umanitaria e l’agevolazione dei ricongiungimenti familiari, nonché mediante una revisione dei regolamenti di Dublino riguardanti la gestione delle domande d’asilo nell’Unione europea. 

Pericoli in mare 
In Italia e a Malta, Amnesty International ha intervistato oltre 50 rifugiati e migranti. Molti hanno descritto l’esperienza comune dei pericoli incontrati durante il viaggio in mare, tra cui le violenze e il sovraffollamento delle imbarcazioni. Alcuni sono sopravvissuti a naufragi e ad altri incidenti mortali. 

Mohammed, 22 anni, proveniente da Damasco (Siria), ha raccontato ad Amnesty International: “Quando abbiamo lasciato la Libia, eravamo 400 adulti e circa 100 bambini. Abbiamo dovuto raggiungere a remi l’imbarcazione più grande. All’inizio non riuscivo a vederla, poi quando l’ho notata ho visto che era in cattive condizioni. Non volevo salire, ma lo scafista mi ha minacciato con una pistola. Ci sono volute due ore per far salire tutti. Poi, alle 2 di notte, ho sentito degli spari. Un’altra imbarcazione con uomini armati a bordo ci si è messa davanti. Hanno cercato di fermarci per circa quattro ore. Sparavano da ogni direzione. All’alba, se ne sono andati. La nostra barca, danneggiata, stava affondando. Abbiamo gettato in mare tutte le nostre cose, compresi i salvagente: volevamo vivere!” 

La mancanza di coordinamento tra gli stati costieri, specialmente tra Malta e Italia, ha reso ancora più pericolose le traversate. La polemica di lunga durata tra Italia e Malta sui loro rispettivi obblighi in materia di ricerca e soccorso può aver causato la morte di centinaia di rifugiati e migranti l’11 ottobre 2013, quando un peschereccio con oltre 400 persone a bordo naufragò nella zona di ricerca e soccorso maltese. 

Le proteste internazionali per chiedere di fare di più per salvare vite umane in mare non sono state seguite da alcuna significativa azione da parte dei leader europei. L’Italia è stato l’unico paese dell’Unione europea a reagire lanciando l’operazione Mare nostrum e destinando una parte significativa della sua flotta alle attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale. 

Tuttavia, persino il massimo sforzo da parte italiana è stato insufficiente a impedire le drammatiche perdite di vite umane dell’estate del 2014. Inoltre, l’Italia ha recentemente dichiarato la non sostenibilità, nel lungo periodo, dell’operazione Mare nostrum. 

“Mare nostrum ha salvato decine di migliaia di vite ma non è una soluzione a lungo termine. Occorre uno sforzo comune europeo per realizzare quella che è una responsabilità comune dei paesi dell’Unione europea” – ha spiegato Dalhuisen. 

“La recente proposta di affidare tali operazioni a Frontex, l’agenzia dell’Unione europea per il controllo delle frontiere, sarà un passo positivo solo se gli stati membri metteranno a disposizione mezzi adeguati e se le operazioni si svolgeranno in acque internazionali con un mandato nettamente focalizzato sulla ricerca e il soccorso” – ha sottolineato Dalhuisen. 

La necessità di riformare il sistema d’asilo dell’Unione europea 
Amnesty International ritiene che il regolamento di Dublino, secondo il quale lo stato dell’Unione europea di primo arrivo è responsabile dell’esame delle domande d’asilo, pone un onere iniquo a carico dei paesi impegnati nelle operazioni di soccorso, che devono poi provvedere alle necessità di lungo termine delle persone soccorse. 

La mancanza di una responsabilità condivisa tra i paesi dell’Unione europea sta dissuadendo gli stati dell’Europa meridionale - specialmente Malta – dal trasferire rifugiati e migranti nei loro porti. L’operazione Mare nostrum ha tappato momentaneamente la falla ma, se dovesse terminare senza essere adeguatamente sostituita, i ritardi e le dispute sugli obblighi di ricerca e soccorso in mare torneranno a mettere a rischio vite umane. 

“Malgrado i pericoli e le misure dell’Unione europea per tenerli a distanza, i rifugiati e i migranti continueranno a rischiare la loro vita e quella dei loro figli per fuggire da paesi di origine devastati dalla guerra, in cui i diritti umani sono violati o le condizioni economiche sono disperate. Gli stati dell’Unione europea non possono costringerli a viaggiare lungo la più pericolosa rotta marina del mondo e poi abbandonarli al loro destino” – ha concluso Dalhuisen. 

FINE DEL COMUNICATO                                                               
Roma, 30 settembre 2014 

Il rapporto integrale “Vite alla deriva: rifugiati e migranti in pericolo nel Mediterraneo centrale”, la sintesi in italiano e ulteriori risorse sono disponibili all’indirizzo: http://www.amnesty.it/Un-anno-dopo-naufragi-di-lampedusa-numero-di-vite-perse-in-mare-aumenta-mentre-Europa-guarda-altra-parte