mercoledì 5 novembre 2014

I 64 anni della Convenzione europea dei diritti umani

da unimondo


Una breve ricerca web su “Corte europea” AND “Italia” ci restituisce solo per gli ultimi 2 mesi una tale mole di risultati che di tutto si potrebbe accusare il Tribunale fuorché di essere inoperoso. Alcuni esempi?
Mediaset, Corte Europea esaminerà uno dei ricorsi di Berlusconi”.
La prima coppia sposata all’estero: ‘La Corte Europea ci darà ragione’”.
Espulsione profughi, Strasburgo condanna Roma”.
Rifiuti, la Corte europea condanna l’Italia persette discariche del Lazio”.
“Tasse sì, tasse no, Corte europea condanna l’Italia sul gioco d’azzardo”.
Condanne, ricorsi, richiami ufficiali e sanzioni: questi sono solo alcuni dei mezzi a disposizione della Corte Europea dei Diritti Umani per far sentire la propria voce. Una voce espressa da Strasburgo, ragione del conio del riferimento alla Corte quale Tribunale di Strasburgo. Eppure non fu lì che tutto ebbe inizio.
Questa storia nasce a Roma, il 4 novembre 1950, esattamente 64 anni fa. È un sabato e Palazzo Barberini ospita un consesso di indubbia rilevanza politica. I capi di Stato e di governo dei 10 membri fondatori del Consiglio d’Europa, costituito a Londra poco più di un anno prima, il 5 maggio 1949, si riuniscono in quella splendida cornice per la firma della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Un nome solenne quanto le disposizioni che essa racchiude, e che intendevano trasporre i principi proclamati dallaDichiarazione universale dei diritti umani dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) del 10 dicembre 1948 in norme giuridiche vincolanti per gli Stati. L’importanza del sistema delineato dal Consiglio d’Europa non stava dunque tanto nella perfezione del catalogo dei diritti protetti, quanto piuttosto nell’originalità e nell’incisività delle procedure di controllo. È proprio da questa “mission” che scaturì la volontà di creare un Tribunale che giudicasse le violazioni dei diritti umani commessi dagli Stati europei contraenti; l’istituzione avrebbe visto finalmente la luce alcuni anni dopo, nel 1959.
La storia della creazione del Consiglio di Europa è connessa strettamente a quella Convenzione sui diritti umani elaborata appena un anno dopo la sua nascita. Il tentativo di ricostruire il continente europeo dopo la devastazione della seconda guerra mondiale non doveva essere solo materiale ma intendeva soprattutto testimoniare e valorizzare lacomune concezione ideale insita nella “democrazia”, nei “diritti umani” e nella “dignità dell’essere umano”. Se la culla di tali principi era stata proprio l’Europa, da essa doveva giungere la ferma volontà di metterli in pratica e di farne il fondamento dell’idea europeista. Logico quindi che la prima grande realizzazione del Consiglio concernesse i diritti umani.
Il 10 agosto scorso l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha celebrato i 65 anni dalla sua prima sessione: un bel traguardo per un’istituzione che oggi vanta ben47 membri, di cui 28 Stati appartenenti all’Unione Europea, e diversi Paesi osservatori. Tutti e 47 gli Stati membri hanno ratificato la Convenzione europea dei diritti umani e accettato la giurisdizione della Corte, consentendo alla stessa di emettere in questi anni più di 10mila sentenze giuridicamente vincolanti. Le più note aventi come oggetto l’Italia sono connesse, come risaputo, alla situazione carceraria del Belpaese in violazione dell’art. 3 della CEDU che proibisce la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. A questo proposito è recente la notizia che il Tribunale di Strasburgo ha iniziato a respingere i ricorsi (19 in tutto) di detenuti nelle carceri italiane facendo riferimento al recente decreto 92/2014 adottato dal parlamento che dovrebbero migliorare la condizione di sovraffollamento carcerario.
Già è stata invece definita storica la sentenza sul caso Sharifi et alii contro Italia e Grecia con cui la Corte Europea dei Diritti Umani condanna la consueta prassi di “respingere” ogni giorno cittadini di Paesi terzi che arrivano in Italia nei porti dell’Adriatico nascosti su traghetti provenienti dai porti greci. Il carattere indiscriminato dei respingimenti, il mancato accesso alle procedure per la richiesta di asilo e tantomeno della possibilità di ricorso contro la misura di allontanamento sono al centro della decisione della Corte, in linea con la precedente sentenza Hirsi Jamaa et alii v. Italia, riguardo i respingimenti del 2009 verso la Libia. In entrambi i casi il pericolo concreto di tortura e maltrattamenti in cui sono molto probabilmente incorse le persone respinte tanto verso l’Afghanistan quanto verso la Libia avrebbe dovuto indurre Italia e Grecia ad attuare tutte le misure di identificazione dei richiedenti lo status di rifugiato.
Che si tratti di libertà di culto (si veda la sentenza che ha avuto ampia risonanza sull’affissione del crocifisso nei luoghi pubblici, come scuola o tribunali), di diritto a un giusto processo (il ricorso di Silvio Berlusconi sulla sentenza Mediaset non è che uno dei più clamorosi sinora effettuati) connesso peraltro spesso alla lentezza del processo che si tramuta in assenza di giustizia, di libertà di espressione, di diritto a sposarsi, di protezione di proprietà, una cosa è certa. L’Italia, come molti altri Paesi europei, non è esente dal commettere violazioni, anche gravi, delle disposizioni della Convenzione europea dei diritti umani. Un documento al quale è legata la storia recente del continente stesso e che, non solo a parole, va osservato nel rispetto e nella salvaguardia di quei diritti e libertà fondamentali in cui l’Europa unita affonda le sue radici.

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